[Columbia University Press, New York 2016]
Il libro d’esordio di Jeremy Rosen, Minor Characters Have Their Day, propone una serie di problemi di carattere metodologico di grande interesse per gli studi di teoria della letteratura, in particolare per la definizione dei generi letterari. Utilizzando strumenti critici che vanno dal distant reading agli studi postcoloniali, dai gender studies alle teorie economiche neo-liberali, Rosen tenta di definire a livello storico, teorico e culturale ciò che egli chiama «minor-character elaboration» – una voce narrativa che, dagli anni Sessanta in avanti attraverso la forma simbolica del romanzo (da Wide Sargasso Sea di Jean Rhys nel 1966 a The Meursault lnvestigation di Kamel Daoul nel 2015), tenta di recuperare storie afferenti alla tradizione occidentale, raccontandole (o riscrivendole) da un altro punto di vista (per lo più “minor”, cioè di un ente testuale narrativo – ed empirico – che appartiene a una “minority”).
«This inquiry into minor-character elaboration», conclude Rosen, «demonstrates, I hope, how genres function at the intersection of formal iteration, the politics of cultural forms, and the institutions and material channels of cultura! production – as well as the utility and rewards of genre study» (p. 186). Certamente, il merito di Rosen è quello di aver tracciato una storia culturale di una forma simbolica del romanzo, studiandone con acribia i mezzi di produzione e le modalità di trasmissione («minimizing risk and targeting readerships, because ‘semi-programmed’ literature that follows a proven formula and appeals to a preexisting audience helps combat the uniqueness and hence unpredictable sales of any new book», p. 123), nonché l’impatto geo-politico e culturale che certe riscritture di testi classici – per lo più ignoti al grande pubblico americano – possono avere sulla società (cfr. a riguardo il secondo capitolo, «The Real and lmaginary Politics of Minor-Character Elaboration (1983-2014)», pp. 83-116).
Tuttavia, si può davvero parlare di “genere letterario” prendendo in considerazione solo una produzione letteraria nazionale (per di più ancora in fieri), un mercato e un periodo storico, senza tenere conto della ricca e ben più datata produzione delle medesime forme simboliche in Europa? Non è un caso che nell’utilissima appendice («Minor-Character Elaborations since 1966», pp. 187-190) che chiude il libro, Il diario di Lo di Pia Pera (1995) figuri come un testo americano (Lo’s Diary 1999). I rapporti tra teoria e letterature comparate sono particolarmente complessi, e certamente non è questa la sede per riproporre questa vexata quaestio. D’altra parte, qualunque pretesa di codificazione teorica di un genere o di una forma simbolica deve avere, quantomeno sullo sfondo, un orizzonte sovranazionale tale da poter suffragare una tesi tanto ambiziosa quale è quella proposta da Rosen. Per motivi socio-culturali, gli Stati Uniti sono il paese dove, probabilmente, i Minor Characters hanno avuto uno spazio maggiore rispetto ad altre realtà culturali: romanzi come The Penelopiad (2005) di Margaret Atwood e Lavinia (2008) di Ursula Le Guin sono testi “prodotti” per il mercato americano; come ha recentemente rimarcato lo stesso Rosen in un’intervista, essi «reflect the concerns of the historical moments in which they flourish. Minor-character elaborations reflect the interest of readers and writers in revisionist histories, in new angles on old stories».
Nel suo complesso, il libro di Rosen offre spunti interessanti, soprattutto nelle sue pieghe formali, grazie alle quali è effettivamente possibile identificare i “patterns” narrativi dei “minor characters”. Tuttavia, come lo stesso autore sottolinea alla fine del testo («each of the genre l’ve briefly traversed here offers an opportunity far more detailed scholarly investigation», p. 186), la materia presa in esame necessita di un ulteriore approfondimento, sia da una prospettiva storica, sia sovranazionale, per poter essere considerata una nuova – e soprattutto efficace – teoria del personaggio.
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